
Elisabetta Rasy – Anche oggi cercansi governanti modello Jane Eyre
Avvenire, 9 gennaio 2011
Si intitola La governante e altri problemi domestici uno dei primi libri editi da una nuova casa editrice, Astoria, intenzionata a proporre autori e soprattutto autrici poco conosciuti o poco valorizzati nel nostro paese. In questo caso l’autrice è Charlotte Perkins Gilman, una strana figura di protofemminista vissuta avventurosamente e drammaticamente in America tra il 1860 e il 1935, che aveva soprattutto un’idea in testa: la necessità del lavoro femminile. Con una personale motivazione: un’occupazione non solo casalinga secondo Gilman era necessaria non per ragioni di autonomia e carriera, ma per essere delle buone mogli e madri. Tant’è che nella storia che dà il titolo al libro, la governante in questione è un gentiluomo benestante che riesce ad ottenere la mano di una bella attrice offrendosi come perfetto collaboratore domestico perché lei possa dedicarsi al suo mestiere. Negli altri racconti appaiono marginalmente delle vere governanti, ma sono figure di scarso rilievo. Invece proprio le istitutrici, le governanti, le bambinaie hanno avuto un ruolo importante nella storia del lavoro femminile e anche nella storia della letteratura moderna. Figure di frontiera, che portano nel lavoro le proprie competenze di donne – la cura, l’accudimento, anche la capacità affettiva – sono, dal punto di vista simbolico che è quello in cui pesca l’immaginazione letteraria, personaggi allo stesso tempo interni e esterni alla famiglia, con il carico di implicazioni drammatiche che questo comporta. Come tre celebri governanti della letteratura tra Ottocento e Novecento: la fervida e coraggiosa protagonista del Giro di vite di Henry James (del 1898), la perfida signora Danvers di Rebecca, la prima moglie scritto da Daphne du Maurier nel 1938, e soprattutto Jane Eyre, voce narrante dell’omonimo romanzo che Charlotte Bronte immaginò nel 1847 e che fu una sorta di libro di culto per le donne che allora scrivevano considerando la loro attività letteraria non un’arte ma una missione sociale. Jane infatti è una ragazza orfana, povera, non bella, come lei stessa ci tiene a sottolineare, che grazie al suo coraggio e alla sua intraprendenza – anche aldilà della torsione sentimentale che l’autrice impone al racconto – diventa un’eroina di tipo nuovo, rovesciando la sua subalternità in una affermazione basata sulla virtù personale e non sul lignaggio o sull’avvenenza, e neppure sulla furbizia che per antica tradizione veniva considerata un’arma femminile. Charlotte conosceva ciò che raccontava, perché agli albori dell’epoca moderna per molte ragazze istruite ma di condizione modesta la cura dei bambini delle famiglie abbienti era l’unica strada possibile a una professione decorosa. Bambinaia negli anni della prima giovinezza era stata anche Mary Wollstonecraft, che più tardi avrebbe scritto la “Rivendicazione dei diritti della donna” e sarebbe diventata un’intellettuale affermata. Oggi queste figure sono scomparse e nelle famiglie il loro posto è occupato dalle badanti, che arrivano da molto più lontano e che si occupano degli anziani invece che dei bambini. Sono figure meno romanzesche e attraggono meno la fantasia dei narratori (salvo qualche eccezione in una convenzionale chiave erotica) , eppure avrebbero molte storie da raccontare. Anni fa parlai a lungo con una giovane donna che si prendeva saltuariamente cura, in qualità di sostituta di una badante stabile, di una persona gravemente malata della mia famiglia. Era arrivata in Italia da un paese del Centroamerica in modo più che avventuroso con la vecchia madre e le sorelle, in una sorta di vera epopea attraverso molti paesi e con i più svariati mezzi di trasporto, e viveva in una remota periferia romana in precari e mutevoli alloggi di fortuna. Mi disse che aveva un soprattutto un grande desiderio, e io pensai a una casa migliore, un lavoro fisso, più denaro. Invece no: avrebbe voluto scrivere la sua storia, cioè prendere la parola, dare a se stessa una soggettività visibile e dare alla propria vita dignità di racconto.