Rassegna Stampa

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Gianfranco Manfredi – Britannia Mews

Club Dante, 14 giugno 2012

Sarà che alla lunga uno non ne può più di romanzi “mozzafiato” e preferirebbe respirare come un normale essere umano, possibilmente rilassato, ma non della serie: “un capitolo alla volta prima di addormentarsi”. Sarà che uno non sopporta più i “colpi di scena a getto continuo” tanto obbligati da risultare quanto mai prevedibili, e preferisce lasciarsi trasportare da una storia avvolgente, scritta come dio comanda, misurata, ma non frettolosa, sapiente nella tessitura e saggiamente non infarcita di riferimenti esibizionistici, sarà tutto questo o forse soltanto il fatto che di fronte a un bel romanzo si riscopre il piacere della lettura come porta d’accesso a un mondo “altro” rispetto a quello dello spettacolo di mero intrattenimento, ma quest’opera dell’inglese Margery Sharp mi ha davvero deliziato. L’autrice (1905-1991) raggiunse la fama mondiale con il ciclo di romanzi per l’infanzia The Rescuers, da cui la Disney trasse i popolarissimi film di Bianca e Bernie, e il meritato successo finì per oscurare i suoi 26 romanzi per adulti, tra i quali appunto Britannia Mews (1946). All’epoca non era ancora comparsa all’orizzonte la narrativa cosiddetta neo-vittoriana, che rievocava e rievoca tuttora scenari di giro secolo, in genere per rimarcarne il “lato oscuro” , diffondendosi in trasgressioni d’ogni genere, in particolare sessuali e omicide. Così che, dopo una caterva di romanzi, sceneggiati televisivi e film, l’idea che ci siamo fatti del vittorianesimo è ormai quella di un’età di spericolate avventure a tinte fosche, di coraggiose quanto disperate reazioni individuali all’ipocrisia e al moralismo imperanti, di giuste rivendicazioni sociali e sessuali e di inquietanti abiezioni quasi si dovesse, ai tempi, incontrare un Jack lo Squartatore ad ogni angolo di strada. Margery Sharp ci racconta invece la lunga storia di un caseggiato popolare, “un piccolo mondo a sé” che fin dal nome è però anche metafora dei destini dell’intera nazione. “Il luogo manteneva una sua individualità. Nessuno poteva avere dubbi sul genere di posto in cui stava per entrare: nel 1865 scuderie modello; nel 1880 slum; nel 1900 decoroso assembramento di abitazioni per operai” e infine “posto alla moda”. Ma una storia, si sa, non è tale se non è storia di qualcuno e dunque veniamo condotti all’esplorazione del contesto ambientale, storico, familiare e sociale, attraverso il bellissimo personaggio di Adelaide Culver, una giovane di rispettabile famiglia, la cui casa di pregio, in Albion Place, affacciata su Hyde Park, sorge proprio di fronte a questo caseggiato degradato che ospita un’umanità povera e marginale che sopravvive di carità, di prostituzione e piccoli commerci di strada, di sbronze all’osteria, di fugaci presenze di bohèmien melanconici e velleitari. Curiosa e anticonformista fin da piccola, Adelaide viene da subito attratta da questa vita così diversa dalla sua, finché le circostanze la portano a varcare l’invisibile, ma nettissima linea di demarcazione che la separa da Britannia Mews, restandone dapprima risucchiata, poi trovandovisi reclusa e infine partecipando alla sua positiva trasformazione e propiziandone la rinascita. Adelaide è una di quelle ragazze di nessuna avvenenza da giovani che diventano belle con gli anni, in virtù delle esperienze, del carattere, di quella suprema forma di venustà che risiede nel portamento, cioè nel sapere mantenere la schiena eretta di fronte alle avversità. La vita le presenta delle occasioni e Adelaide le coglie sempre: tutto è meglio delle convenzioni borghesi, della noia dei riti familiari, dei comodi pregiudizi. Se l’occasione, una volta afferrata, si rivela un guaio, mai Adelaide si duole d’averla colta. Ciò che è fatto è fatto. Ci sarà sempre, a saperla vedere, un’altra occasione a portata di mano, senza bisogno di tornare indietro, di pentirsi degli errori (evitabili o inevitabili che fossero), di coltivare il sentimento perenne della sconfitta. Le occasioni di cui si narra sono quelle che capitano nel corso della vita, di ogni vita: incontri, piccoli progetti, sogni da perseguire con determinazione e sogni cui rinunciare per concretezza, senza farsene perciò un cruccio. Attraverso Adelaide, Margery Sharp ci dà la sua personale definizione di “vittorianesimo”, intessuta di un’ironia austeniana, frutto di saggezza istintiva più che di convinzioni ideologiche, rispettosa dell’altrui personalità quanto della propria, mai nutrita del bisogno ossessivo di emergere e di prevalere sugli altri e a dispetto degli altri. Adelaide ci insegna che si può essere anticonformisti senza farsene un manifesto, si può esercitare la propria autorevolezza senza essere autoritari, si può essere educati senza essere rigidi, si può litigare senza ingiuriarsi, si può condurre una vita “scandalosa” senza dare fiato alle trombe dello scandalo, e si può benissimo non attribuire particolare rilievo alla sessualità senza essere perciò sessualmente repressi. Il vittorianesimo di Adelaide (e della Sharp) è una miscela di carattere e di signorilità, è coraggio responsabile, disponibiltà a rendersi utile, senza perciò farsi strumentalizzare. Ciò che alla svolta del secolo e per gli anni a venire, va mantenuto e rigenerato del vittorianesimo, è , insomma, la capacità di affrontare la vita con attenzione e con stile. Stile, appunto. Letterariamente parlando, lo stile del romanzo è supremo. Ogni singola parte è perfettamente equilibrata. Le svolte narrative non mancano certo, ma non vengono mai rimarcate a forza come se la scrittrice pensasse di trovarsi di fronte a lettori da stupire a tutti i costi, troppo lenti di comprendonio o incapaci di immaginazione. Tecnicamente, sarebbe un testo da studiare nelle Scuole di Scrittura cosiddetta Creativa. Il primo capitolo della Parte Quarta, in una decina di pagine mette in scena un passaggio di generazione con rara fluidità, ricorrendo a piccoli, dosatissimi scarti di linguaggio. Da applausi, davvero. Il finale è straordinario, di grande forza poetica e sentimentale senza perciò alcuna intenzione di sollecitare quel sentimentalismo da lacrime a fiumi, che uccide in “maniera” ciò che si dovrebbe semplicemente “sentire”. Dev’esserci anche pace e compimento, in un finale, e questo, da scrittori, lo si dimentica ormai troppo spesso, per lasciarsi sedurre da effetti da farmacopea letteraria. Se si legge sempre meno, il problema non è contrastare l’andazzo leggendo tanto, ma leggendo il giusto. E le scelte editoriali che premiano il giusto leggere, sono il miglior contributo che si possa dare alle urgenze presenti.

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